La video telefonata con Paulo Airaudo si apre con lo chef che ci accoglie, metaforicamente parlando, nel suo locale “work in progress”, che verrà inaugurato il 26 giugno. Siamo in Spagna, San Sebastian, a due passi dal mare, con la spiaggia inizia a distendersi appena superata la carreggiata. E a giudicare dalla gente in strada, il Coronavirus sembra già un ricordo.
Un’inaugurazione ritardata per ovvi motivi dato il momento attuale, ma nella quale lo chef non ha mai smesso di credere. La sua visione ottimistica emerge sin dalle prime battute, quando ci dice che durante il lockdown, effettuato in Spagna così come in Italia, con relativa chiusura dei locali, lui non ha licenziato nessun dipendente. Non solo nei Paesi Baschi (San Sebastian) dove tiene il suo quartier generale e altri due locali, ma anche negli altri ristoranti sparsi tra Londra, Ginevra e Honk Kong. “Il ristorante è fatto prima di tutto dalle persone, non solo dallo chef, quindi non ho voluto licenziare nessuno. Per me lo staff è la cosa più importante e ho pagato a tutti lo stipendio in questo periodo. Se falliremo non sarà per una o due persone in più che ho deciso di tenere. Il ristorante è fatto di mani e cuore, non è una fabbrica” ci dice in perfetto italiano “sporcato” da un’inevitabile una cadenza spagnola. Lo chef, di origini italiane, è nato in Argentina nel 1985 e dopo aver girato il mondo ha deciso di portare avanti a San Sebastian la sua idea di cucina. Una cucina di stampo prettamente italiano (così come italiana è la maggior parte del suo staff in Spagna), da Amelìa così come nei suoi altri locali. In un periodo in cui si parla di incertezza, di chiusure, di tagli al personale lo chef Airaudo naviga controcorrente, prima di tutto confermando tutto il suo staff di sala e cucina e poi rilanciando con questa nuova apertura. “Alcuni turisti sono già arrivati. La gente è già in strada, è uscita di casa e popola la spiaggia, perché non dovrebbe tornare anche al ristorante?” Si chiede lo chef dal terrazzo del suo locale di lusso “in via di definizione”.
E in effetti, puntando la camera verso la spiaggia, di persone in giro ce ne sono molte…
Messico, Perù, poi Europa tra Londra, Cesenatico, Ginevra e infine Spagna. C’è un insegnamento particolare che hai tratto da ogni Paese in cui hai lavorato?
Sempre, è quello che mi da un’ottica diversa. Ho imparato che senza il personale non sono nessuno, anche io posso essere bravo nel mio mestiere ma hai comunque bisogno delle persone, io cerco sempre persone che siano più brave di me, perché così continuo a crescere e a andare avanti.
Tra tutti questi viaggi, c’è stato bisogno di adattarsi di volta in volta alla gastronomia, e ai palati, di ogni paese per esprimere una cucina quanto più apprezzabile possibile?
La mia cucina è molto identitaria, quindi nei vari Paesi la porto avanti secondo quelle che sono le mie regole. Un’idea di cucina che si basa sulla forte contaminazione italiana, perché mi sono accorto che all’estero la tradizione italiana non viene percepita come dovrebbe. A chi si lamenta, nel mio ristorante, di un piatto di pasta a 14€ io rispondo che la pasta è fresca, fatta a mano ogni mattina, che gli ingredienti sono di prima qualità. Il personale costa, i professionisti costano, così come la materia prima. Tutto deve essere proporzionato.
Hai ottenuto la stella Michelin in vari locali di tua proprietà, tra i quali ovviamente Amelìa a San Sebastian. Qual è secondo te la formula giusta per ricevere, e poi replicare, un riconoscimento simile?
Cucinare bene, tutti i giorni facciamo le stesse cose alla stessa maniera, nel miglior modo possibile. È questo l’unico modo che conosco, e che conosciamo, di lavorare. Il prodotto deve essere ovviamente eccellente. Abbiamo una metodologia di lavoro ben precisa in tutti i locali e sono molto orgoglioso di questo.
I Paesi Baschi sono notoriamente una zona della Spagna dalla fortissima identità patriottica, sociale e politica. Questa identità la si nota anche per quanto riguarda la gastronomia?
Sì la cucina basca è molto tradizionale e tradizionalista, qui sono molto legati alle propria cultura e poco aperti alla novità e alla diversità. Ammetto però che si sono un po’ “ammorbiditi” negli ultimi 10 anni e questo ha permesso a gente come me di essere qui e proporre una cucina diversa ma comunque apprezzata. Sono diventato l’unico straniero nella storia di questo territorio a avere la stella Michelin. Ricordo però che, all’inizio, c’era molta diffidenza nei miei confronti.
Poco tempo fa prese piede una sorta di dibattito: se al ristorante fosse “giusto” proporre solo il menu degustazione, non lasciando piena libertà al cliente di poter scegliere. Tu, che da Amelia proponi solo degustazione, che idea ti sei fatto e come vuoi rispondere?
Il business è il mio, e di conseguenza anche l’offerta. Se qualcuno vuole venire sa che tipo di offerta propongo, altrimenti se si vuole scegliere liberamente ci sono altri molti locali che hanno la carta. Considero chi si lamenta della sola possibilità del degustazione come dei dinosauri, ma fortunatamente sono una piccolissima parte, che non accettano il non poter scegliere liberamente cosa mangiare. La carta in realtà non è nemmeno “conveniente” economicamente per il ristorante e la formula del menu degustazione è quella più funzionale per mantenere l’impresa. Il mio degustazione, inoltre, è più “breve” rispetto alla media: in un’ora si mangia e i miei piatti non sono “assaggi”, ma porzioni abbondanti perché per me l’importante è che si possa mangiare veramente. Se vieni in un ristorante come il mio, è perché prima di tutto ne accetti il concetto che c’è dietro.
In molti, tradizionalmente, all’estero associano la cucina italiana a pasta e pizza. Tu che all’estero vivi e lavori, e che la nostra cucina la conosci molto bene essendo anche un membro di Ambasciatori del Gusto, pensi che davvero sia ancora così oppure questa concezione è stata definitivamente superata?
C’è ancora una visione distorta della cucina italiana. In tanti mi chiedono l’insalata come secondo piatto, non consapevoli che questa sia un contorno. C’è però anche bisogno di doversi adattare di volta in volta alla clientela, tanto che in alcuni casi devo presentare degli antipasti come secondi piatti perché, altrimenti, non verrebbero ordinati. Vivendo e lavorando all’estero però mi sono accorto che la vera cucina italiana non è compresa né conosciuta adeguatamente. In tanti non apprezzano la pasta al dente, ritenuta cruda, riso a volte troppo cotto viene considerato crudo. Mi è capitato recentemente qui in Spagna di andare in un ristorante che promuoveva la sua “vera carbonara” e mi hanno portato pasta praticamente in una zuppa di tuorlo. Non volevo crederci (ride, ndr)
Per chiudere, hai in progetto qualcosa nel nostro Paese?
Voglio fare qualcosa a Firenze. Un gastronomico a un livello veramente alto. Non sarà facile per l’impostazione che vorrò dare al locale ma voglio fare qualcosa di piccolo, intimo, per 6-8 persone, ma di lusso. Firenze è una città che mi piace molto: ha tutto, storia, arte, buon cibo, turisti di qualità e una clientela alla quale piace spendere. Un progetto al quale sto pensando ma che comunque ho intenzione di portare avanti.