Un nuovo studio scientifico potrebbe mettere in discussione la conoscenza medica sugli antibiotici. Secondo un nuovo approfondimento pubblicato dal prestigioso British Medical Journal i cicli completi e lunghi di antibiotici sarebbero più nocivi che utili. Finora i medici consigliano di completare l’intero ciclo di cura per evitare l’insorgenza di resistenze, ma adesso la scienza potrebbe remare in senso contrario. Sospendere i farmaci appena ci si sente meglio sarebbe più utile e salutare.
La tesi di proseguire il trattamento anche quando i sintomi sono spariti risalirebbe agli albori dell’era degli antibiotici. Quindi agli studi in merito alla penicillina, quando l’inventore Alexander Fleming raccomandava un utilizzo prolungato del farmaco, per evitare l’insorgere di resistenze e la diffusione di pericolosi batteri immuni alla penicillina. Da allora la scienza avrebbe approfondito gli studi in materia di antibiotici, ma dando per buona la convinzione del passato.
Secondo i ricercatori inglesi mancano prove che confermino la necessità di lunghi cicli di terapia. Al contempo si sono sottovalutati i rischi derivanti da cure troppo lunghe. Quindi l’invito è di rivedere le linee guida attuali per un corretto uso degli antibiotici.
“È vero che mancano studi che dimostrino un legame diretto tra insorgenza di antibiotico resistenza e cicli di trattamento troppo brevi”, ha detto Antonio Clavenna, farmacologo dell’Istituto Mario Negri, a Repubblica.it. “Ed è altrettanto vero che esistono rischi di selezione collaterale proporzionali alla durata delle terapie. Si tratta di indicazioni importanti che dimostrano la necessità di ulteriori studi volti a rendere maggiormente mirate le nostre terapie. Ma raccomandare il fai da te nel campo degli antibiotici mi pare sbagliato: dovrebbe sempre e comunque essere un medico a stabilire se i farmaci hanno avuto effetto e quando è il momento di sospendere la terapia”.
Il farmacologo rassicura che qualche giorno in più di terapia non può causare problemi, specie se si tratta di antibiotici di prima linea. “È quando vengono prescritti antibiotici più potenti, la cosiddetta seconda linea, che possono nascere i problemi – ha sottolineato Clavenna – in questo caso, anche tre giorni in più possono rappresentare un pericolo. Ma questi farmaci andrebbero utilizzati principalmente in ambito ospedaliero, un ambiente in cui disponiamo già adesso di test e biomarker che permettono di constatare in tempo reale l’efficacia dei farmaci, e di sospendere la terapia esattamente al momento più opportuno”.